La prima Guerra del Golfo che mette in crisi il petrolio, la capillarità dei distributori del Kuwait in Europa e un lobbying che sconfinava nella diplomazia: tutto in Foreign Architecture/Domestic Policy di Humboldt Books.
Un gioco di copywriting niente male quello sui distributori di benzina della Q8, che letto all’inglese, Qu-Eight, rimanda subito al paese produttore, il Kuwait. Un copy tanto esplicito, semplice, graficamente rappresentabile, da non far nemmeno troppo pensare al fatto che si tratti di un’azienda petrolifera nazionale controllata direttamente dal governo, con oltre cinquemila stazioni di servizio in Europa. Un lavoro di branding pulito, che rimanda a un’azienda qualsiasi, a una generica corporation, dove non vengono nemmeno usati i colori della bandiera ma dei commercialissimi arancioni, blu, gialli e rossi, in un logo commissionato all’agenzia londinese Wolff Olins.
Tra Qatar Gate a Bruxelles, Renzi & Friends, coppe del mondo, giornalisti assassinati, derby italiani a noleggio, grattacieli da record, musei europei alla ricerca di bancomat, ormai il golfo Persico fa parlare di sé quotidianamente, neanche ci fosse una guerra in corso. (In realtà c’è, quella tra Arabia Saudita e Yemen, ma tant’è). Meno tamarro degli Emirati, meno dark dell’Arabia Saudita, il Kuwait, ex protettorato britannico, è indipendente solo dal 1961. Seppur piccolino – gli abitanti sono 4 milioni e 2, più o meno come l’area metropolitana di Roma – è il decimo paese al mondo nella produzione di greggio. Ma negli anni Settanta, quelli della crisi del petrolio, dell’immaginario degli sceicchi coi dollaroni, in cui i paesi OAPEC fecero capire quanto potere avessero, i numeri del Kuwait erano ancora più estremi: meno di un milione di abitanti ed esportazione del 10% del greggio mondiale. Il governo decise di investire in Europa, aprendo centinaia e poi migliaia di stazioni di servizio, assicurandosi un mercato diretto. I paesi dove si investì di più: Belgio, Olanda, Lussemburgo e soprattutto Italia, dove ancora oggi i distributori Q8 sono almeno 562.
Nel 1990 l’Iraq invade il Kuwait e Bush padre blocca tutti i conti del sultanato. Considerati però indipendenti, i distributori europei Q8 continuano non solo a fare soldi, ma diventano strumenti di lobbying con i governi per sbloccare la situazione e cacciare l’invasore. I dirigenti in esilio si ritrovavano a Londra a gestire tutti i distributori. Quindi, negli anni della Guerra del Golfo, la prima, i vari distributori europei della Q8 diventano ambasciate non ufficiali. Forse gli edifici più brutti del mondo ad avere un ruolo del genere. Almeno questa delle ambasciate è la tesi dei due architetti Hamed Bukhamseen e Ali Ismail Karimi che hanno mappato – letteralmente – le stazioni di servizio Q8 nel continente europeo, fotografandole tutte per mostrare la capillarità del Kuwait, soprattutto in Italia. Ma mostrano anche il ruolo della stazione di servizio come nuovo edificio rappresentativo di un’epoca. “Il distributore di benzina”, scrivono, è “forse è il più insignificante tra le affermazioni architettoniche del ventesimo secolo”. E nel caso dei Q8, “l’architettura non è un’innocua serie di monumenti o capricci, ma una serie progettata di momenti architettonici, che tentano di attrarre i clienti senza attirare l’attenzione verso le loro sfumature più sovversive e politiche”. “Non più a gas, ma a cherosene / Il riscaldamento centralizzato più ti scalda e più conviene / Niente carbone, mai più metano. / Pace, prosperità e lunga vita al sultano”, cantava Rino Gaetano.
La ricerca di Bukhamseen e Karimi, che lavorano insieme col nome di Civil Architecture, trova un contenitore formidabile nel libro di Humboldt Books dal titolo Foreign Architecture/Domestic Policy, con una copertina bluissima di plastica. Dentro ci sono anche tutte le foto dei distributori. Oltre all’influenza di nazioni estere, nascosta da un logo commerciale che entra subito nell’immaginario, il lavoro dei giovani Bukhamseen e Karimi fa pensare anche alla presenza dei distributori di benzina. Un contributo di Todd Reisz nel libro analizza proprio il distributore come oggetto architettonico. “La stazione di servizio è allo stesso tempo una minaccia e un rifugio, alienante e banale, essenziale e causa di sprechi”. Reisz poi si chiede – una domanda fondamentale – quando ci saranno solo le Tesla, cosa se ne farà dei distributori di benzina? Verranno smantellati? Diventeranno rottami come le cabine telefoniche?
Se pensiamo ai distributori nel nostro paesaggio italiano possiamo immaginarli accanto a un anfiteatro romano, che spuntano dietro a una curva sul lungomare, o tra le colline toscane dopo un filare di cipressi, a rovinare le immagini da cartolina. Pensiamo subito alla loro funzionale e necessaria anonimità, alla loro bruttezza, al modo in cui il loro ruolo d’inquinamento sia doppio, nell’aria e alla vista. Anche perché esistono benzinai belli, come quelli americani degli anni Cinquanta, lucidi e cromati, della Texaco o della Sinclair, molto Norman Rockwell e film con James Dean. Forse, vista la lentezza verso una maggiore sostenibilità, verso auto elettriche o verso trasporti pubblici massici, saremo costretti ancora per qualche decennio alla vista dei distributori di benzina. E quindi si potrebbero almeno rendere più attraenti, coinvolgere qualche designer, qualche archistar, magari, facendo un po’ di greenwashing estremo, facendoci crescere delle piante sul tetto.
Fonte esquire.com – Articolo di Di Giulio Silvano