Il Presidente FIGISC, nel contesto delle trattative con le compagnie, lancia un appello a non esasperare le divisioni all’interno della Categoria
Moltiplicandosi le attese (e anche alcune polemiche) sulle sorti della trattativa per l’accordo con ENI, mi sento in dovere di prendere posizione, con una lettera aperta che avrà corso anche sui social, su un paio di questioni, una ben specifica che riguarda la trattativa in corso con ENI, una più ampia che riguarda in generale la situazione nella categoria. Immagino che questa posizione solleverà nel mare già agitato onde di commenti, polemiche e probabilmente anche attacchi personali (sperando che qualche “Napalm 51”, per citare Crozza, non si spinga ad insulti da dover far scomodare l’avvocato), ma ciò non toglie che forse sia necessaria, nel migliore dei casi, almeno come contributo al dibattito.
È in corso la trattativa con ENI per la negoziazione di un accordo sostitutivo di quello del 2014, da anni ormai scaduto. Così alla fine di luglio come alla fine di settembre i due incontri preliminari hanno avuto al centro tutte le considerazioni generali e specifiche che le associazioni hanno posto all’azienda (le ricadute del lockdown, la sempre minore sostenibilità economica, l’adeguamento dei margini, la definizione della vacanza contrattuale dopo la scadenza dell’accordo 2014, i canoni del non oil, ecc.), tutto ciò in termini interlocutori, senza ancora una proposta economica definita, sulla quale l’azienda si era riservata di fare una sua proposta, impegno riconfermato all’incontro del 24 settembre, e che dovrà trovare concreta attuazione nelle imminenti settimane.
Ad oggi, quindi, l’azienda non ha “scoperto le carte” della parte economica, elemento, anche se non unico, su cui valutare gli esiti di un accordo. Per valutare la complessità di questo accordo ci sono da tenere presenti tre elementi: il primo, che nel 2021 verranno a scadere i singoli contratti previsti dal rinnovo 6+6 risalente all’accordo 2009; il secondo, “se” e “quanto” l’azienda intenda mettere a disposizione dei gestori per i margini base, le incentivazioni, ecc.; il terzo, quali siano le condizioni (o le contropartite) alle quali l’azienda, se tale sarà l’opzione, metterà a disposizione risorse. Questa è la sostanza delle cose in ballo, come ogni trattativa del resto.
Noti gli ultimi due elementi (e tenendo conto del primo) si dovrà valutare l’atteggiamento da prendere rispetto: a) al livello di soddisfazione della parte economica, b) al livello di accettabilità delle condizioni e degli impegni chiesti al gestore. Sarà a quel punto che si avvierà un dibattito che aiuti a decidere al meglio una partita che non è affatto scontata, né semplicistica, né nel caso che essa possa infine approdare alla stipula di un accordo, né tantomeno nel caso dovessero essere necessarie azioni di mobilitazione in caso negativo.
Non manca molto per arrivare al nodo cruciale: in questa breve fase mentre le preoccupazioni sono più che legittime, ed anzi doverose, semplificazioni, illazioni, anticipazioni, od altro sono per ora premature e fuorvianti, e peggio ancora sono le polemiche sull’ignoto.
L’altra questione travalica i confini di ENI ed ha una portata generale.
La pongo come ragionamento pacato e senza alcuna polemica, la pongo come ragionamento perché ogni tanto serve parlare alla “testa” più che alla “pancia”.
La situazione della categoria non è mai stata ad un punto così basso: il settore ed il mercato si sono incattiviti, sono inquinati dall’illegalità, e, in una fase di “transizione energetica”sono entrati nella precarietà ed assenza di strategia, per di più in una congiuntura economica già difficile prima ed ora aggravata dalla pandemia, con tutto questo che si ripercuote sulla parte debole della filiera in maniera sempre più drammatica, che non può certo trovare grandi “motivazioni” in tale clima di totale incertezza e vera e propria crisi nera.
Tuttavia, sia che si tratti di gestire la quotidianità, le cose urgenti (accordi, rapporti con le aziende), sia che si tratti nel contempo di percorrere una via nuova per ridare ruolo al gestore nel mercato, a partire, ad esempio, dalla messa in sicurezza (una più forte tutela normativa) dei contratti tradizionali e delle loro varianti e fino allo sviluppo di alternative che finalmente diano senso all’impresa del gestore ed alla sua sostenibilità economica e competitiva (e FIGISC ci sta provando a livello propositivo almeno da un anno), oggi tutto serve, in termini di energia, idee e volontà, fuorché la frammentazione e la delegittimazione delle organizzazioni della categoria.
Sorgono ogni altro giorno nuove sigle di gestori (in qualche caso con delega di rappresentanza ad uno studio legale), ognuna in disaccordo con “i nazionali” su tutto, ma anche in parte con le altre sigle sulle rivendicazioni, sui mezzi e gli strumenti, ognuna, insomma, che si esercita nel “fai da te”.
Con tutto il rispetto per le ragioni di chi pensa che questa sia la strada per giovare alla categoria (e molto meno per chi è mosso solo da personalismi ed antagonismi “a priori”), non è questo il percorso che può portare qualcosa a nessuno (i “nuovi”), togliendo ad alcuni (i “vecchi”), premesso che prima dei nuovi e dei vecchi viene il gestore.
Semmai tutto questo grado di confusione rende questa categoria sempre meno rilevante, finendo per emarginarla una volta per tutte, per azzerare ogni rappresentatività (quella tradizionale e quella alternativa, insieme in un unico mazzo).
Né serve a qualcosa la pura e semplice delegittimazione, la teoria di “chi rappresentano questi?”, “chi li ha scelti?”, rivolto alle sigle storiche.
Sul “chi rappresentano?” e sul fatto che queste siano le rappresentanze, una volta per tutte va detto che non è un dato autoreferenziale: è la legge (ultima la 27/2012) a prevedere la regola delle “organizzazioni maggiormente rappresentative”, una regola, peraltro, che riguarda anche tutti gli altri settori e non solo il nostro, ed è un concetto che si basa non solo sui numeri, ma anche sul ruolo consolidato di sottoscrittori di accordi e protocolli e non solo con le aziende, ma anche con Governi e Ministeri.
Sul “chi li ha scelti?”, quei dirigenti che vengono spesso vilipesi, sbeffeggiati e tacciati di ogni colpa, accusati di essere “venduti o comprati”, sono il risultato di elezioni assembleari, secondo le regole di ogni associazione. Possono fare bene o male, possono essere adatti o non idonei alla situazione di questo o quel momento, ma sono stati eletti, non si sono semplicemente “presi il posto” da soli.
Ma, al di là delle regole, c’è da dire che il confronto delle posizioni, le battaglie delle idee (che sono cosa ben più nobile degli attacchi personali e della diffamazione) si fanno “all’interno” delle organizzazioni, non sbattendosi dietro la porta (che nessuno ha chiuso davanti!) ed andandosene per conto proprio. Lo si dovrebbe fare perché, appunto, non basta la convinzione di essere nel giusto se poi si genera solo frammentazione senza poter essere utili in modo concreto ed efficace all’obiettivo del cambiamento. La diversità delle opinioni (che non sia solo contrapposizione in malafede), lo sforzo per portare energia nuova, visioni costruttive, ecc. sono una risorsa all’interno delle organizzazioni, ne costituiscono la linfa, ne permettono il rinnovamento.
E, aggiungo, le porte sono sempre aperte!
Ed a che giova la delegittimazione?
Essa indebolisce le parti che vengono delegittimate (ma non certo solo le parti in quanto “gruppi dirigenti” e persone, ma, cosa ben più rilevante, il loro ruolo negoziale, le loro azioni), senza rafforzare peraltro nessun competitore, ed indebolendo la categoria nel suo insieme e, a caduta, ogni singolo gestore nella sua individualità di impresa. In una confusione come quella attuale non può meravigliare che istituzioni e politica ritengano una perdita di tempo tenere in considerazione le problematiche della categoria, e che le controparti non negozino con il necessario rispetto.
E, a proposito di controparti e rispetto, più propriamente, anzi, la domanda giusta è “a CHI giova la delegittimazione?”
Se non giova certo a chi viene delegittimato (che sarà ovviamente in maggiore difficoltà a trattare con efficacia e sarà progressivamente privato di autorevolezza, senza che per questo peraltro se ne avvantaggino coloro che promuovono la delegittimazione), se politica ed istituzioni saranno ancor meno sensibili, se men che meno giova alla categoria collettivamente intesa e fino all’ultimo singolo gestore, la risposta alla domanda su “CHI” viene avvantaggiato davvero non può che essere una sola! Alla fine della giostra che razza di risultato è?
Fonte Figisc.it