L’Ue ha messo la produzione di idrogeno fra le tappe necessarie per la decarbonizzazione con massicci investimenti, ed è partita la grande corsa ad accaparrarsi i fondi. Vediamo di capire bene come funziona. La rivoluzione verde e la transizione ecologica pensate dal governo Draghi valgono 59,33 miliardi di euro. Di questi 23,78 miliardi saranno destinati all’incremento della filiera delle energie rinnovabili in agricoltura, alla promozione di impianti innovativi (anche offshore), al trasporto locale sostenibile, alla dotazione di accumulatori per stoccare l’energia in eccesso, e alla rete intelligente per gestire i flussi energetici. Dentro c’è anche la partita «idrogeno» che assorbe 3,19 miliardi. Nello specifico: 2 miliardi per la riconversione delle imprese energivore (acciaierie, cementifici, etc), 160 milioni per la ricerca, 500 per la produzione di idrogeno in aree industriali, 530 per la sperimentazione nel trasporto stradale e o ferroviario. Poi ci sono altri 450 milioni a parte che andranno a finanziare lo sviluppo tecnologico nelle filiere di transizione verso l’idrogeno.
Quale idrogeno si produce oggi
Le cose però non sono così semplici perché l’idrogeno non è disponibile in natura: per ricavarlo va staccato dalle molecole cui è combinato, come nell’acqua e nel metano, e lo si fa con processi industriali che consumano tanta energia, quindi costano. Poi va trasportato: per renderlo liquido va raffreddato a -250°, a livello gassoso va sottoposto a pressioni che arrivano a 700 atmosfere e il suo confinamento in solidi porosi è ancora in via sperimentale.
Oggi nel mondo si producono 73,9 milioni di tonnellate di idrogeno per un valore di mercato di 150 miliardi di dollari. Il 96% arriva da combustibili fossili, si chiama idrogeno «grigio» e per farlo si utilizza come materia principalmente il metano, ma anche il petrolio e il carbone. Un processo che libera 9 kg di CO2 ogni kg prodotto ed è quindi incompatibile con gli obiettivi di emissioni zero. L’industria petrolifera spinge per l’idrogeno «blu»: il processo è lo stesso di quello grigio, ma la CO2 prodotta verrebbe catturata e stoccata nei giacimenti esausti di petrolio e gas. Su questa tecnologia sono stati investiti nel mondo molti soldi, con risultati deludenti: vari progetti sono stati chiusi. C’è l’esperimento della Norvegia, che utilizza un giacimento esausto di gas per stoccare CO2. Si trova nel mezzo del mare del Nord, lontanissimo dalla terraferma. Ed è quello che vorrebbe fare l’Eni nel suo giacimento di metano esausto di fronte a Ravenna. Ma utilizzare combustibile fossile per trasformarlo in idrogeno, e sotterrare la CO2 prodotta, richiede una enorme quantità di energia. Il vantaggio per l’industria però è un altro. Per spremere dai giacimenti fino all’ultima goccia di petrolio, oggi si iniettano liquidi e vari gas (per aumentare la pressione); domani si potrebbe spingere dentro solo la CO2 prodotta facendo idrogeno. Problema: l’anidride carbonica una volta sotterrata diventa liquida, e poiché parliamo di volumi potenzialmente enormi, secondo il Cnr occorre valutare attentamente il rischio sismico, che in Italia è quello che è.
L’idrogeno buono è verde
L’unico idrogeno a zero emissioni è quello «verde», perché la materia prima utilizzata è l’acqua e l’energia per produrlo è elettrica e può provenire da fonti rinnovabili. Eppure oggi quello verde è solo il 4% della produzione dell’ idrogeno mondiale. Le ragioni sono almeno tre: 1) non abbiamo energia rinnovabile sufficiente per farlo, per avere un positivo impatto ambientale dobbiamo aumentare di 80 volte la produzione mondiale; 2) il processo di produzione è molto energivoro e con la tecnologia di oggi non siamo in grado di farlo su scala industriale; 3) il costo, dai 4 ai 6 euro per un kg di idrogeno verde, contro l’1,5 di quello grigio e per quello blu, che ancora non esiste in commercio, si stimano 2 euro. Il verde quindi ora è fuori mercato.
La Commissione europea, però, prevede che con l’aumento della produzione il costo degli elettrolizzatori, i macchinari per produrre idrogeno dall’acqua, si dimezzerà entro il 2030 e nel 2040 l’idrogeno verde dovrebbe diventare competitivo (2 € al kg), consentendo nell’arco di 10 anni di sostituire con idrogeno il combustibile fossile nell’industria pesante, e nel traporto come camion, navi, treni, e forse aerei.
La grande scommessa
L’idrogeno verde dunque dovrebbe essere uno dei pilastri per un futuro decarbonizzato: può essere bruciato come il metano (producendo però ossidi di azoto) oppure convertito in energia elettrica con le celle a combustibile, ove si produce solo vapore acqueo.
Per questo l’Unione Europea ha deciso di puntarci per arrivare a emissioni di carbonio zero nel 2050, e l’8 luglio 2020 ha definito una strategia operativa: la produzione di idrogeno verde dovrà passare in 30 anni dal 2% al 14%. Le tappe sono tre: 1) entro il 2024 l’installazione di 6 gigawatt di elettrolizzatori per produrre 1 milione di tonnellate di idrogeno verde; 2) entro il 2030 almeno 40 gigawatt di elettrolizzatori e 10 milioni di tonnellate; 3) entro il 2050 un quarto di energia rinnovabile generata servirà a produrre idrogeno verde da utilizzare su larga scala. Numeri poco credibili: secondo i calcoli del Cnr non andremo oltre le 700 mila tonnellate al 2024 e 4,5 milioni al 2030. Ma per arrivarci ci sono tante cose da fare prima: entro il 2030 aumentare al 32% la quota di energia da fonti rinnovabili negli usi finali, tagliare i consumi di energia primaria del 32,5% e aumentare l’interconnessione di almeno il 15% dei sistemi elettrici dell’Ue. Integrare il sistema energetico vuol dire gestirlo nell’insieme, ad esempio: l’energia elettrica che alimenta le auto può arrivare dai pannelli solari sul tetto, mentre le case possono essere riscaldate dal calore di scarto di una fabbrica nelle vicinanze che, a sua volta, si alimenta con l’idrogeno prodotto dall’energia eolica o solare in eccesso. L’insieme di questi processi trascina anche il rilancio dell’economia: 5 milioni di posti di lavoro secondo McKinsey (di cui 540 mila in Italia – Forum Abrosetti) per un volume d’affari nel mondo, secondo Bank of America e Goldman&Sachs, di 11/12 mila miliardi di dollari nel 2050.
Le potenzialità inespresse dell’Italia
In sostanza, per arrivare ad una produzione di elettricità in eccesso rispetto ai fabbisogni elettrici occorre costruire reti integrate e intelligenti e aumentare drammaticamente la produzione di rinnovabile. L’Italia era partita bene, ma poi abbiamo rallentato: produciamo ancora il 45% dell’elettricità con il gas. Nel resto del mondo nel 2020 è stato record di crescita per le rinnovabili, scrive la Iea nel suo rapporto, e boccia l’Italia che sta avanzando di un solo gigawatt in più all’anno: vuol dire che agli obiettivi da raggiungere nel 2030 ci arriveremo nel 2085. Di questo passo l’idrogeno verde lo vedremo con il binocolo. Intanto Snam, Saipem e Italigas sono tutti entusiasti ai blocchi di partenza. Hanno firmato accordi, protocolli, stilato progetti. Ma di concreto ancora nulla.
In compenso in Sardegna, regione solare e ventosa adatta quindi ad un incremento di impianti per la produzione di rinnovabili, si stanno piazzando tubi del gas. Il progetto di metanizzazione dell’isola, che ha ancora due centrali a carbone attive, è vecchio di anni, ma lo stiamo realizzando adesso, sapendo che ci vogliono 50 anni per ammortizzarlo e che fra 30 anni potrebbe non servire più. Ma un giorno potrà passarci l’idrogeno, dicono Snam e Italgas. Chissà se andranno bene un giorno quei tubi e quelle valvole. Intanto l’Arera, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti Ambiente, non solo ha detto che la migliore soluzione dal punto di vista costi-benefici è quella del trasportare sull’isola il metano liquefatto con navi spola dai terminali e poi distribuirlo via gomma, ma ha anche bocciato il piano di metanizzazione dell’isola presentato da Enura, la joint venture tra Snam e Società Gasdotti Italia. In Olanda dal 2018 per legge è vietato posare nuovi tubi. In Gran Bretagna dal 2025 nelle case non si dovranno più installare boiler a gas. In Germania da quest’anno chi utilizza il gas in casa deve pagare una tassa che servirà a finanziare la transizione verso l’elettrico, che è molto più efficiente grazie a pompe di calore e forni a induzione. In buona parte della California è vietato da quest’anno l’utilizzo del gas negli edifici nuovi. Sul punto l’Agenzia Internazionale per le Rinnovabili ha detto espressamente: il potenziale passaggio all’idrogeno non deve essere usato come giustificazione per costruire ora nuovi gasdotti, con la scusa che possano servire per il gas verde nel futuro.
Fonte Corriere.it – Articolo di Domenico Affinito e Milena Gabanelli